Gli Otto Stadi di Patanjali Yoga Sutra

Patanjali è il fondatore del sistema dello Yoga e autore degli Otto Stadi del Yoga Sutra, l’antico testo che stabilisce la pratica e la filosofia dello Yoga.

La figura di Patanjali non si limita solo a quella di studioso e autore di testi; in alcune tradizioni egli è considerato alla stregua di un rishi, ovvero di un poeta veggente, e di un saggio realizzato (sadhu), altre sostengono l’esistenza di due persone diverse, altre ancora negano tutto ciò. Il primo libro ad essere valutato una trattazione sistematica dello Yoga è la sua raccolta di 195 sutra (frasi concise, aforismi), scritta come da classica tradizione indiana probabilmente intorno al 300 a.C. C’era una ragione per questo tipo di scritti: quando i Sutra vennero compostio non esistevano i libri: l’intero lavoro doveva essere memorizzato, quindi esposto nella maniera più sintetic possibile. Di sicuro c’è che l’opera Yoga Sutra ha equiparato Patanjali ai grandi Maestri.

Gli Yoga Sutra furono un testo quasi del tutto dimenticato, utilizzato da pochi gruppi di iniziati come era consuetudine in India fino al 19º secolo. Fu infatti nell’Ottocento che tale testo divenne di pubblico dominio. Patanjali descrive i mezzi idonei di cui parla Sri Krishna nella Bhagavad Gita, gli Otto Percorsi o gli Otto Stadi dello Yoga, attraverso i quali raggiungere il controllo della propria mente ed entrare in contatto con il proprio Sé.

YAMA – Questa parte rappresenta le regole morali ed etiche che indicano i comportamenti dai quali astenersi (verso sè stessi e verso gli altri) e presenta molte analogie con i cinque precetti del buddhismo e i dieci comandamenti dell’ebraismo. Patanjali ritiene che lo yogi possa arrivare a purificare e a controllare la propria mente solo imparando a vivere nella società come un individuo felice, funzionale ed utile agli altri. Nel dettaglio gli Yama sono i seguenti:

  1. Ahimsa, o non violenza: questo Yama ha un significato molto più profondo rispetto al non usare la violenza fisica o al non mangiare carne. Non violenza significa anche deporre qualsiasi atteggiamento distruttivo verso noi stessi e verso gli altri. Significa entrare in un atteggiamento di positività e di esaltazione delle proprie capacità al servizio degli altri, di rinuncia alla mortificazione di noi stessi e degli altri: significa essere propositivi e costruttivi.
  2. Satya, o verità: vivere nella verità ci aiuta nella costruzione di una mente più pulita e più lineare. La menzogna porta via con sé molta dell’energia, che ci è stata data per essere utili nella nostra realtà. La mente continua a ricordare le bugie già dette e nei casi estremi  non riesce più a distinguere le sue costruzioni dalla realtà. Dire la verità significa dire in primo luogo la verità a sé stessi, riconoscere la nostra vera essenza, nonostante le aspettative della famiglia e della società, e vivere noi stessi con coraggio. Affrontare la verità, viverla con coerenza è parte della nostra azione nel mondo visibile, significa parlare con intenzione e chiarezza secondo le nostre possibilità.
  3. Asteya, non rubare: così come per Satya, Asteya va al di là del comandamento di non rubare. Non significa solo evitare di danneggiare l’altro sottraendogli ciò che è suo, ma anche non rubare al mondo qualcosa che per noi è superfluo. Avere più del necessario, per esempio, significa sottrarre alla terra parte delle sue energie per qualcosa che non ci serve. Essere attaccati alle cose e desiderarne sempre di più, come il sistema capitalistico attualmente ci spinge a fare, significa rubare energia al nostro pianeta e agli altri. Noi tutti siamo ormai consapevoli di quanto la nostra ricchezza passi attraverso la povertà di intere popolazioni, siamo anche consapevoli di quanto i nostri governi siano lontani dal nostro desiderio di pace e di cambiamento e di quanto siamo impotenti rispetto a questo sistema, ma è importante il fare o il non fare quel poco che ci è consentito nelle nostre piccole ma importantissime vite. Un primo passo da compiere, per esempio, potrebbe essere quello di vivere nella gratitudine per quello che abbiamo: ringraziare quotidianamente il nostro pianeta per quello che ci ha dato nell’arco della giornata è un buon modo per creare più pace ed armonia con quello che ci sta intorno.
  4. Bramacharya, o astinenza: per molti yogi, l’astinenza sessuale era e continua ad essere un modo per conservare e innalzare l’energia del proprio corpo. Questo rende più facile, attraverso varie tecniche di meditazione, raggiungere degli stati superiori della mente e innalzare la vitalità generale. In tempi moderni, tuttavia, grandissimi yogi come Lahiri Mahasaya si sono incarnati sulla terra per mostrare come anche nella vita di coppia sia possibile percorrere il sentiero dello Yoga.
  5. Aparigraha, assenza di desideri: avere desideri sia sociali, che materiali e fisici, crea attaccamento, porta l’attenzione della mente al modo in cui realizzarli, distogliendo lo yogi dal sentiero della sua ricerca interiore. Ognuno di noi è distolto dai propri desideri, dal vivere nel qui ed ora nell’unica realtà che esiste, il presente. Le nostre menti sono irrequiete e vivono spesso nel passato attraverso i ricordi o nel futuro attraverso i sogni e le proiezioni. Il passato non c’è più, il futuro non c’è ancora, l’unica cosa reale che possiamo vivere è il presente, con tutta la nostra attenzione e consapevolezza nel momento che stiamo vivendo. Questo significa aumentare la concentrazione e la propria presenza nel fare, nell’agire, costruire, parlare e in ogni nostra singola azione.

NIYAMA – Sono le qualità spirituali e il comportamento da seguire: quando lo yogi ha imparato a controllare i suoi impulsi, a tralasciare le inclinazioni del proprio ego ed a vivere in modo utile agli altri, può intraprendere, secondo Patanjali, la via del Niyama, una serie di regole e di discipline che promuovono il senso di libertà personale e il senso di connessione con il mondo esterno. Nel dettaglio i Niyama sono i seguenti:

  1. Saucha, o pulizia: ovviamente si tratta di qualcosa di più che tenere pulito il proprio corpo ed avere una buona igiene; si tratta di onorare il proprio corpo avendone la massima cura. Lo yogi quindi fa esercizio fisico, respira correttamente, è attento a mangiare del cibo salutare e ad avere un appetito equilibrato, è attento a dormire né troppo poco, né troppo a lungo. Il corpo è inteso in questo senso come il veicolo attraverso il quale il proprio Sé può agire all’interno di questa dimensione. Il corpo è un mezzo di azione e percezione in questa vita terrena ed è quindi qualcosa da curare perché raggiunga e mantenga le sue più grandi facoltà. Il primo ostacolo nel cammino interiore è la malattia. La pulizia coinvolge poi il modo di porsi verso gli altri, con gentilezza, altruismo e compassione. Si tratta di un modo di agire non soggetto agli attaccamenti (pigrizia, gola, libido, interesse, gelosia, invidia, ecc.), ma solo alla cura e all’amore per sé, per gli altri e per il creato.
  2. Santosa, o distacco: nel vivere nel qui ed ora lo yogi attraversa ogni possibile esperienza del mondo con la coscienza ed il cuore pienamente presenti e sensibili al dolore o alla gioia che l’esperienza comporta. Il distacco significa vivere in modo consapevole il dolore e la gioia senza identificarsi con essi, rimanendo in uno stato di calma interiore e di centratura indipendente dagli eventi esterni.
  3. Tapas, o austerità: l’austerità nella propria vita quotidiana porta alla concentrazione sul sentiero dello Yoga, ad evitare gli eccessi, a praticare ogni giorno la disciplina con completa e gioiosa devozione.
  4. Svadhyaya, studio di sé stessi: questo per Patanjali significa studiare il proprio corpo, la propria mente, il proprio cuore, il proprio ego. Approfondire ogni giorno la conoscenza delle proprie abitudini acquisite, delle proprie reazioni agli eventi esterni, dei propri automatismi, ci aiuta a maturare dei comportamenti consapevoli verso l’esterno, ad evitare che la nostra vita e i nostri rapporti con gli altri siano diretti da automatismi dovuti all’educazione, alla società, persino alla cultura nella quale viviamo. Studiare sé stessi, significa rispondere con l’intelligenza del cuore alle situazioni. La mente è automatica e associativa, cataloga tutto in bene e male (concetti che dipendono molto dalla cultura e dalla propria formazione), il cuore distingue attraverso l’emozione ciò che per noi è bene e ciò che per noi è male. Più la mente è silenziosa, più abbiamo la possibilità di dare ascolto alle emozioni del cuore.
  5. Isvara pranidhana, o devozione verso il principio creatore: lo Yoga non è una religione, lo Yoga è una filosofia laica. Essa si propone come una serie di tecniche per raggiungere l’unione con il divino, quella scintilla che innegabilmente ci rende degli esseri a metà tra cielo e terra. Che il divino sia identificato con il Dio giudaico-cristiano o islamico, o con la immagine di Gesù, o Buddha, questo non è importante. Ognuno di noi ha un proprio modo di sentire, immaginare, sperimentare la divinità. Quello che è più importante è rimanere in contatto profondo con questa nostra parte, essere consapevoli di essere una piccola goccia nel mare del Tutto e di esserne parte pienamente, di avere un ruolo e un potere molto forte nella creazione. Ognuno di noi conta molto ed è collegato imprescindibilmente a tutto il resto anche quando non agisce, non parla, non pensa. Il nostro stesso esistere ed essere genera un campo intorno a noi e la qualità del campo che noi generiamo dipende da ciò che siamo in quel momento. Più siamo puliti e vicini alla divinità, più amore e luce potremo trasmettere al resto del mondo. Per capire l’effetto e il potere che ognuno di noi può avere, provate a pensare a grandi uomini e donne che da soli e contro ogni aspettativa sono riusciti a cambiare delle situazioni apparentemente insuperabili. Nelson Mandela e Madre Teresa di Calcutta costituiscono degli esempi molto recenti della forza che dei singoli individui possono sprigionare dal proprio Sé.

ĀSANA – Patanjali non si sofferma molto sulla descrizione dettagliata delle singole āsana, piuttosto specifica che in ogni āsana lo yogi deve essere in grado di percepire la tensione e tuttavia di stare nell’āsana comodamente, senza perdere la calma del proprio respiro ed il proprio equilibrio. Egli specifica che, diventando sempre più avanzati nelle posture, si diventa sempre più liberi dalle preoccupazioni del corpo. Di conseguenza nelle āsana meditative, liberi dalle tensioni muscolari e nervose, si svilupperà l’abilità di rimanere in meditazione per molte ore, senza che la mente debba preoccuparsi delle esigenze del corpo.

PRANAYAMA – Il quarto sentiero indicato da Patanjali è l’arte del respiro. Pranayama letteralmente significa “controllo della energia vitale”. Il respiro e l’attività cerebrale sono strettamente collegati. Ogni volta che siamo agitati, nervosi o arrabbiati il nostro respiro diventa più corto; ogni volta che siamo rilassati e gioiosi, il respiro si rilassa diventando lungo e in grado di inalare un volume maggiore di aria. Così come il nostro stato emotivo ha effetto sul respiro, il respiro ha effetto sul nostro stato emotivo, quindi concentrarsi sul rendere il respiro più calmo porta la mente ad uno stato di maggiore calma e tranquillità. In tempi recenti sono stati registrati degli effetti fisiologici misurabili correlati alla modalità di respirazione, effetti che si riflettono nel diverso tipo di onde cerebrali che si generano durante la meditazione. Il Pranayama comprende moltissime tecniche di respirazione utili al controllo di processi fisiologici, come la temperatura corporea, le capacità digestive, la concentrazione, il riposo, il numero dei battiti cardiaci e molti altri.

PRATYAHARA – Raggiunta la calma e il controllo del corpo e della mente, lo yogi può proseguire verso il Pratyahara e cioè il ritiro dei sensi dal mondo esterno. Questo significa il raggiungimento di uno stato simile al sonno. Durante il sonno escludiamo dalla nostra consapevolezza i suoni, le sensazioni tattili, la vista e l’olfatto. Allo stesso modo durante la meditazione, il focus viene portato internamente a sé stessi, piuttosto che al di fuori. In questo modo si rimane con la propria attenzione in sé stessi, interiorizzando la coscienza.

DHARANA – Il termine significa intensa concentrazione. Patanjali indica il Dharana come la concentrazione della mente su un unico pensiero o un unico oggetto. Può essere il punto tra le due sopracciglia, l’immagine del proprio Guru, il suono di un mantra. La concentrazione su un solo punto libera la mente e la predispone al passo successivo.

DHYANA – In questo passo lo yogi in meditazione sperimenta per un periodo prolungato di tempo, un senso di connessione molto profonda con la Coscienza Universale. Significa essere assorti nella vasta percezione di Dio in uno dei Suoi infiniti aspetti: Beatitudine, Pace, Luce Cosmica, Suono Cosmico, Amore, Saggezza ecc. che pervadono l’intero universo.

SAMADHI – Il samadhi è l’ultima fase del percorso yogico: rappresenta la liberazione, la perfetta conoscenza della verità suprema, nella quale non ci sono più distinzioni, opposizioni, ma si percepisce l’essere come parte del Tutto. Il samadhi è uno stato di totale assorbimento, di equilibrio in cui lo yogi diventa uno con il proprio punto di concentrazione, in cui supera sé stesso e la distinzione tra l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione.

 

Articolo redatto da: Segreteria di Swami Amrirananda
Davide Russo Diesi | Certified Yoga Teacher RYT-500 Yoga Alliance USA – Yogasthali Yoga Society, INDIA.

Istruttore Yoga Davide Russo Diesi

Istruttore Yoga Davide Russo Diesi